La luce è Dio! (PARTE 3)

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Leggi anche la PARTE 1 e la PARTE 2

Dal 1803, nacque intorno a Turner una dicotomia di gusti e reazioni circa le sue opere. Da una parte una cerchia in espansione di persone che dimostravano di gradire sempre di più il suo operato, dall’altra i giornali dell’epoca, il mondo accademico e conservatore, che non riusciva a stare al passo con le follie cromatiche del genio.

Con il Congresso di Vienna del 1815, in Europa era tornata la pace e finalmente Turner poté programmare il suo viaggio in Italia. Il pittore si sentiva attratto dalla penisola per l’ammirazione che provava nei confronti della sua arte, per i pittori che vi avevano lavorato, per Lorrain, Poussin e suo cugino Gaspard Dughet, e non ultimo per Salvator Rosa.

Il viaggio in Italia del 1819 costituì un vero punto di svolta, la rivelazione della luce, che si fonde e si confonde con la poesia. Gli acquerelli fatti a Venezia sono molto più di un’elegia dedicata alla città, sono un diluvio di luce.

Nei suoi album di viaggio egli agisce d’istinto senza alcuna soggezione, salvo quella di ottenere l’effetto, né voluto né fedele, ma solo sentito.

Turner ha quarantaquattro anni, la sua abilità è versatile, la sua mano obbedisce senza sforzo e prontamente alla sua volontà e accompagna senza esitazioni la decisione di volta in volta di dissolvere, di far esplodere, di sgorgare. Durante il suo soggiorno presso la città dei Dogi dipinse un memorabile acquerello su un foglio di carta bianca, particolarmente adatta a catturare la luce eterea e leggera. Si tratta di Venezia, San Giorgio Maggiore vista dalla Dogana.

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L’aria e l’acqua acquistano una sfumatura di verde molto vicina al turchese. Mutando intensità e registro, qualche macchia scura gli permette di creare dei rettangoli, una verticale e qualche curva morbida. In fondo una semplice linea pallida senza rilievo, perduta in un leggero vapore perlato, disegna la silhouette della città.

Attraverso la fluidità dei colori, la luce, finalmente, la luce pura, leggera e cristallina, brilla, corrode e frastaglia le forme. Quest’acquerello reinventa Venezia. Ormai sul foglio giace nei suoi riflessi una nuova Venezia che non è mai esistita prima. È nata nell’istante in cui Turner, dimentico di gerarchie artistiche e dettami accademici, ha steso il primo colore, e risorge nuova sotto ognuno dei nostri sguardi. Turner non ha più bisogno di inseguire la luce, egli rinasce con lei in questo acquerello.

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La città è avviluppata da una malia opalescente. Alcune macchie ocra sono sufficienti a suggerire la presenza delle barche e il loro dondolio. Una colata di rosso trasparente, un grigio azzurro translucido sono i primi scintillii di sole. Turner tuttavia non si lascia prendere dall’ebrezza della scoperta. La prudenza accompagna l’apparizione di un nuovo territorio poetico. Il pittore passa dalla descrizione carica di significati codificati all’evocazione incantata.

Tornerà a Venezia, e negli anni quaranta la città sarà completamente dissolta in un’epifania totale di luce, fino a perdere qualsiasi contatto con la realtà e divenire “puro spirito”.

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La scoperta della luce avvenuta a Venezia si manifesta nello schizzo di Ulysses Deriding Polyphemus, ed è rivelata nella versione realizzata dieci anni dopo, per poi progredire fino all’abbagliamento, alla fusione e all’estasi attraverso diverse esperienze tentate negli ultimi venti anni della sua vita.

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Turner amava il grande poeta dell’Odissea e avrebbe voluto studiarne il testo originale. In cambio di alcune lezioni di pittura, tentò, purtroppo invano, di familiarizzare col greco tramite il Reverendo H. S. Trimmer. Quindi si accontentò di leggere la fine e celebre traduzione di Pope. Raramente compare ancora in una sua tela una simile esplosione di colore. La critica parlò di “orpello artificiale… un esempio di colore folle – vermiglio puro, indaco puro, e tutte le più squillanti gradazioni di verde, giallo e porpora lottano per avere la precedenza sulla tela con tutti i violenti contrasti che hanno si solito il caleidoscopio e il tappeto persiano[1].

Il promontorio roccioso sul quale, nelle nebbie serali, il Ciclope si contorce e agonizza è enorme. Un succedersi di archi racchiude la baia in cui la flotta si è appena rifugiata. Le navi si apprestano a levare l’ancora in fretta. Un sole ancora splendente cala all’orizzonte, e il ventaglio dei suoi raggi illumina un cielo immenso e trasforma il mare in un riflesso dorato.

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Il linguaggio del colore basato sull’alternanza dei toni caldi e freddi è abbagliante e esasperato. Le ombre sono colorate, le luci scivolano fin dentro le zone scure. In un fiorire di cultura e metafore poetiche, Turner trasforma la schiuma delle onde intorno alla prua della nave in naiadi d’argento ornate di stelle sulla fronte, e prende in prestito il carro del sole del frontone del Partenone. Una pulizia troppo zelante ha oggi praticamente cancellato questa citazione, mal integrata ai pigmenti, poiché si trattava probabilmente di un’aggiunta fatta all’ultimo minuto. L’istante che Turner ferma sulla tela è drammatico: Ulisse dalla sua nave lancia invettive al terrificante mostro, adesso sconfitto. Ogni cosa concorre nel conferire a quest’opera il tono eroico sublime voluto dalla tradizione. In Polifemo è evidente la sua tecnica perfetta, per cui questo è considerato da Ruskin il quadro centrale nella carriera di Turner. Ma l’opera in questione è importante soprattutto perché inaugura più di ogni altro il “luminismo” caratteristico della sua produzione.

In Ulysses Deriding Polyphemus Turner, liberandosi timidamente delle soggezioni accademiche, si sentì libero di utilizzare una nuova gamma in cui, all’interno di molteplici variazioni, dominano il giallo, il blu e il rosso. Li definì “colori aerei” in opposizione ai “colori materiali”. La sua evidente preoccupazione di tenere separati il rosso e il blu ci rivela l’antipatia che provava nei confronti del viola che, per lui, era l’antitesi del giallo. Infine, dalla disposizione di toni caldi e freddi, giunse a spianare la superficie diminuendo, quasi cancellando i contrasti di valore esistenti in natura, che furono divorati dallo splendore della luce. Spariva così il chiaroscuro, il modello classico, a tutto vantaggio di una mezzatinta trasparente, brillante e chiara. Il nero non è più il contrario della luce, ma un colore in sé, usato per se stesso. Nella produzione di Turner Ulysses Deriding Polyphemus inaugura una nuova pittura. Così espresse la sua inquietudine il critico del Morning Herald nel 1829 “il colore diventa folle, cinabro puro, indaco puro e tutte le gamme più violente del verde, del giallo e del rosso[2].

Dall’accordo del giallo, del rosso e del blu, variando tonalità di opera in opera con l’agilità consentitagli dal mestiere, Turner sviluppa tutte le possibilità, la ricchezza delle varianti, per celebrare la luce. Ormai la sua audacia non trova più ostacoli nelle vane considerazioni di gusto e di convenienza, ma va oltre, fino all’eccesso e allo stridore.

Verso la fine del 1822, Turner ricevette da Giorgio IV l’incarico di dipingere un quadro che celebrasse quel momento storico che aveva fatto impallidire lo splendore dell’astro napoleonico, la The Battle of Trafalgar.

La battaglia di Trafalgar fu una celebre battaglia navale, che vide la vittoria della Royal Navy sotto il comando di Lord Nelson, sulla flotta franco-spagnola, il 21 ottobre 1805, a largo di Capo Trafalgar, vicino Cadice. Nelson fu ferito a morte da un colpo di moschetto, il colpo gli perforò il polmone ma l’ammiraglio restò in vita abbastanza da sapere della vittoria dell’Inghilterra.

La vittoria britannica di Trafalgar chiuse definitivamente il duello secolare anglo-francese per il controllo degli oceani: Napoleone dovette rinunciare all’invasione della Gran Bretagna, che diventò la padrona assoluta dei mari fino alla Prima Guerra Mondiale. L’ammiraglio Nelson fu celebrato dagli Inglesi come un eroe nazionale; l’ammiraglio Villeneuve, liberato alla fine della guerra della terza coalizione, si suicidò per non dover affrontare l’ira di Napoleone.

Nel 1806 aveva già ritratto questo “epico” scontro trasportando lo spettatore, con la meticosità di un cronista,  fin  nel cuore dell’avvenimento. L’iscrizione, oggi in parte cancellata dalle inondazioni del Tamigi del 1928, descriveva probabilmente le vicende e le circostanze raffigurate.

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Dopo vent’anni però Turner si era ormai allontanato dal desiderio di essere un “corrispondente di guerra”.

Da uno schizzo all’altro, l’occhio si avvicina lentamente al punto focale della scena: il vascello.

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È l’orrore della guerra: le vele ancora gonfie di vento stanno per calare, le bocche da fuoco vomitano distruzione, le insegne tremano, regna il disordine. L’ardore e la fantasia, i movimenti delle linee, l’instabilità delle forme, il frastuono dei colori, avevano il potere, e Turner lo sentiva, di far scattare da soli l’emozione e il terrore nello spettatore. Questi volumi sconvolti, tirati, schiacciati erano in grado di comunicare allo spettatore l’audacia di un  uomo solo che lotta contro le forze implacabili del destino. Mettendosi al servizio della patria, l’eroe rivendica liberamente la sua morte. E, per una triste coincidenza, nel maggio del 1824 l’Inghilterra apprende la notizia della morte di Byron, che sacrificò la vita a Missolonghi per liberare la Grecia dalla oppressione turca. Purtroppo lo scrittore non è morto nel furore del combattimento: l’umidità, il freddo, la febbre avevano avuto ragione del suo corpo stanco. Lo stile della Battaglia di Trafalgar è accuratamente pulito, per cui il quadro rimane nell’ambito del buon gusto e del furore accettabile. Ma agli occhi di Sua Maestà l’opera è ancora troppo indipendente. E, nuova umiliazione per Turner, essa fu relegata al Greenwich Hospital.

Oltre alla Victory, questa famosa battaglia vide protagonista anche un altro veliero, la Fighting Temeraire.

La Fighting Temeraire si distinse dapprima difendendo la nave ammiraglia di Nelson da un tentativo di abbordaggio da parte della nave francese che l’aveva speronata, la Redoutable. Successivamente aveva subìto impassibile il fuoco delle navi francesi, (per cui era e ancora rimane il simbolo dell’eroismo navale) e aveva infine vendicato l’ammiraglio ferito mortalmente affondando la nave nemica.

Questo illustre passato non impedì alla Fighting Temeraire, trentatre anni dopo, di essere radiata e avviata alla demolizione.

Nell’estate del 1838, lungo l’affollato tratto del Tamigi a est di Londra, si poté vedere un grande scafo semiscrostato, privo di sovrastrutture, senza sartie, alberi e vele, risalire lentamente il fiume, trascinato da due rimorchiatori a vapore: era l’eroica Fighting Temeraire che compiva il suo ultimo viaggio verso il cantiere dove sarebbe stata smantellata.

Una grande onda emotiva attraversò il paese a questa notizia, molti inglesi assistendo alla scena sentirono i loro occhi bagnarsi di lacrime.

Turner se ne fece interprete dipingendo un quadro struggente, una delle sue opere migliori, nel quale la bella nave è rappresentata alla rossa luce del tramonto , tra fumi e vapori, con le vele arrotolate sui pennoni, splendente di luce propria, ancora in grado di esprimere la grazia, la dignità e il carisma di una regina.

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Un’apparizione, un breve ritorno ai tempi della sua massima gloria. Il rimorchiatore che la trascina verso la sua ultima dimora, per contrasto, appare brutto, piccolo, nero e sbuffante.

Il lungo titolo del quadro, The Fighting Temeraire tugged to her last berth to be broken up riassume sobriamente il contenuto della scena rappresentata. Il veliero ferito, come un vecchio guerriero valoroso diventato troppo anziano, ormai incapace di alcun servizio, è trascinato da un piccolo battello a vapore fino al bacino di carenaggio dove sarà demolito. Sotto una luce pallida, ritto contro un cielo grigio azzurro solcato da lunghe strisce di giallo e di ocra rossa, avanza come un fantasma, con tutte le vele raccolte, al solo ritmo del motore assordante del piccolo rimorchiatore che sputa fumo.

Ma la visione di Turner trasforma l’ultimo viaggio della nave da un fatto di cronaca in un’escursione nella memoria. Intriso di un’umanissima nostalgia, questo dipinto, come nessun altro con tanta intensità, rappresenta il dramma del trascorrere del tempo: l’oblio della gloria, attraverso lo svanire dei suoi simboli. Il tramonto di un’epoca, quello della navigazione a vela, che sta per essere soppiantata dal vapore.

Turner è il punto di contatto e di scambio tra il mito classico e la realtà industriale del secolo XIX. Il rimorchiatore che trascina la vecchia corvetta di Trafalgar al suo ultimo approdo, tra un cielo e un mare pieni di riflessi, sembra condurre la mitica balena bianca tra le fauci dell’industrialismo moderno, ma in un’aria ancora fatata.

La valorosa Temeraire fonde in un delicato equilibrio la descrizione dettagliata di derivazione olandese e quell’atmosfera indefinita tutta romantica. Dalla sottigliezza di questo rapporto percepiamo l’emozione del pittore e la sua malinconia.

L’assenza di ogni magniloquenza rende immenso il senso di solitudine. Louis Hawes ha creduto di vedervi una riflessione del pittore sul suo declino, sulla sua morte, su lui stesso, o sull’artista in generale, nel ruolo di eroe.

(Vedere quest’opera dal vivo è stata una delle esperienze artistiche più emozionanti e coinvolgenti della mia vita….)

Gli storici sembrano accordare un simile significato anche a Peace , Burial at Sea.

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Particolarmente interessante appare la strana bellezza delle vele nere, solenni, di un nero intenso, freddo come la morte. La solitudine, l’intensità di quel nero, rispondono della profonda angoscia di Turner, e risvegliano di volta in volta nell’immaginazione nuove analogie. La geometria delle vele nere fa pensare all’entrata nella grotta o nella tomba. Proprio il tema della grotta era stato rappresentato da un’altra cupa tela degli anni Trenta, di ispirazione scozzese.

Nel 1831 infatti, Turner accettò, senza particolare entusiasmo, di illustrare le poesie di Walter Scott, spinto dall’abbondante remunerazione. Il pittore sperava di poter utilizzare la scorta di disegni realizzati in Scozia, per poter evitare di compiere un nuovo viaggio. Ma l’autore e l’editore, Robert Cadell, insistettero perché egli visitasse alcune località di cui parlava il libro.

Durante il viaggio di ritorno l’artista prese un battello per visitare l’isola Staffa sulla costa occidentale. La grotta di Fingal era una meta seducente e romantica, che due anni prima aveva ispirato a Mendelssohn l’abbozzo del suo poema sinfonico e che Walter Scott descriveva così:

…one of the most extraordinary places I ever beheld. It exceeded, in my mind, every description I had heard of it …composed entirely of basaltic pillars as high as the roof of a cathedral, and running deep into the rock, eternally swept by a deep and swelling sea, and paved, as it were, with ruddy marble, baffles all description.”

Turner dipinse Staffa, Fingal’s Cave.

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Il sole, calante dietro l’orizzonte, appare dietro le nuvole di pioggia, il vento iroso annunciò il temporale e la tempesta. Ed essa arrivò, e noi fummo costretti a cercare rifugio nel Loch Ulver..[3], da una sua lettera a James Lenox .

In questa tela scura e angosciante Turner coniugò tutti gli elementi costitutivi non del dramma ma del presagio. Il sole rosso scivola dietro l’orizzonte sospinto dalla notte, le raffiche di vento sollevano i flutti, una costiera dirupata si erge e la nave lotta contro la tempesta per non essere trascinata sulle rocce in una zona di nebbia. Qui il problema si complica: tutto è romantico e tutto è realistico. La nave stessa non è un’antica ed elegante goletta con le vele lacerate, ma una nave a vapore che sputa fumo nero, ed è il prodotto di quell’industrializzazione che interessa l’Inghilterra dai primissimi decenni del secolo precedente. In questo caso Turner non inventa nulla. Come è possibile allora che questa scena rimanga romantica? Perché ogni cosa concorda nel suggerire uno stato d’animo: linea, forma, colore. Durante quella gita Turner ha sentito veramente l’angoscia. E l’ha trasmessa dipingendo. La natura scatenata fa paura. Ugualmente romantico è il modo di disporre ed enfatizzare alcuni elementi compositivi, come la cresta della scogliera la cui linea è ripresa e prolungata un po’ più in basso dal fumo denso, la curva maestosa disegnata dalla zona chiara, come anche l’intenso e turbolento lavoro del pennello. Turner non tenta di realizzare una cronaca, egli si commuove e fa tutto ciò che è in suo potere per impressionare, per trasmettere questa sua commozione.

Gli eventi drammatici accendono più di qualsiasi altra cosa gli animi romantici e l’estro creativo degli artisti. Un tragico episodio degli anni Trenta infatti dette nuova linfa alla creatività di Turner: nella notte il 16 e il 17 ottobre 1834 egli assistette con grande emozione all’incendio della Camera dei Lords e dei Comuni. Il conteggio dei voti raccolti in Parlamento era registrato su bastoncini di legno. Mentre venivano bruciati quelli che si erano accumulati, divampò un incendio che fu impossibile circoscrivere e che distrusse l’intera struttura. Appena avuta la notizia della conflagrazione, Turner si precipitò sul posto e fece numerosi schizzi ad acquerello, tradotti successivamente in due quadri a olio.

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Affascinato irrimediabilmente dal contrasto acqua – fuoco, il pittore cominciò a dedicarsi a tele che si concentravano proprio su questo tema, declinandolo in modi sempre diversi e sperimentali.

Turner ha il senso dei vasti orizzonti, sa rappresentare l’immensità: allora l’eruzione di un vulcano o l’incendio di un edificio appaiono come una concentrazione del fuoco. Sulla tela l’astro del fuoco si riduce a una palla. A volte è situato fuori dal campo del quadro, è nascosto, anche se la sua forza di illuminazione resta sovrana. In altri casi è dissimulato dai vapori, può diventare una macchia di colore, spessa come un oggetto, e luminosa. È presente e allo stesso tempo nascosto. Per colui che adora il fuoco, l’uomo rimane piccolo davanti alla sua potenza devastante, sentendo l’ampiezza, l’importanza simbolica dell’elemento.

In Fire at Sea, intorno al 1835, l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco, scatenati, sono fusi in un tutto inscindibile: una forza elementare li spinge verso la forma e li allontana da essa.

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L’unità cosmica dell’universo si imposta, romanticamente, su una tematica tragica; ma, è da dire, la stessa tragedia è superata dall’ambiguità dell’esistenza che pare andare nei due sensi, verso il caos e verso l’ordine, contemporaneamente, convivendo nella fatale impulsività della natura.

È evidente tutto l’orrore del naufragio, dove i naufraghi sono modellati dal fuoco e dall’oceano che intanto li distruggono. Mare e fiamme si identificano con la forma umana che distruggono, e viceversa. Qui la tragedia tocca la catarsi nel proprio stesso compiersi, nella totalità delle proprie conseguenze.

Fire at sea è frutto di una fantasia ossessionata ed esasperata. La zattera della disperazione, alla deriva, si misura con l’immensità, con la furia degli elementi. Alcune donne impazzite, aggrappandosi ad ogni minima asperità, contorcendosi per lo sforzo, tentano disperatamente di salvare i propri bambini dai flutti furiosi. Acqua e fuoco finalmente uniti, l’incendio abbraccia il mare e lo costringe a cambiare colore. Alte fiamme ricadono dal cielo luccicanti come le frange e le nappe di un sipario. Alcuni uomini inebetiti, respinti all’estremità delle tavole, fanno assurdi segnali aggrappandosi alla loro ultima speranza, un albero della nave.

Nei suoi quadri è presente l’ambivalenza delle cose. Il fuoco, elemento antagonista dell’acqua, provoca in modo perentorio la sua esaltazione poetica,  raggiungendo una sintesi proprio in questa strana tela dovuta ad un’immaginazione surriscaldata, in cui il fuoco sembra bruciare il mare.

Ma è con gli anni Quaranta, l’ultima “delirante” fase della sua vita artistica, che Turner raggiunge i picchi più alti della sperimentazione pittorica, fondendo tutti i temi affrontati nel corso degli anni nella luce estatica che Venezia gli aveva rivelato, e applicando al tutto la teoria dei colori di Goethe, opportunamente commentata e adattata alla propria visione cromatica del mondo. L’estro radicalmente espressivo del genio inglese raggiunge una totale simbiosi con la luce e i pigmenti soprattutto nell’elemento acquatico, testimone di ogni sua svolta stilistica e di tutti i suoi conflitti interiori.

A riprova di ciò, verso gli ultimi anni della sua vita Venezia diventò per Turner come una fissazione. Tra il 1833 e il 1845 Turner espose in Accademia venti tele sulla città lagunare e ne tenne segrete altre otto. Egli spia la città, riprendendo con dovizia di particolari tutte le sue attrattive, la seta della sua veste d’acqua, le iridescenze dell’alba, i suoi tramonti cangianti arancio e verdi, rossi e malva. La evoca calma e dolce durante le belle giornate, straziata sotto il temporale o la tempesta. Il suo sguardo la penetra, scava nei mulinelli d’acqua, nelle scie delle gondole sulla laguna dolce e serena. Venezia coperta di perle svanisce nella luce e si abbandona nel tepore di un indolente pomeriggio. Venezia vestita di velluto cremisi si avvolge e si spiega nei suoi riflessi ai piedi dei palazzi.

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Acquerelli e pitture ad olio hanno in comune la luce, nella sua diversità, nei suoi fremiti. È la luce dell’estasi, sfavillante come una lama d’argento sotto la luna. In Turner la luce non è soltanto gloriosa e sacra, ma anche vorace e impietosa. Essa divora in modo imparziale, senza alcuna distinzione, tutto l’universo vivente.

In Turner la luce è l’altra faccia del buio ed egli passa dall’una all’altro, elementi che non sono contraddittori, come sembra suggerire Snow Storm – Steam-Boat off a Harbour’s Mouth, uno degli ultimi dipinti della sua vita.

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La Teoria dei colori di Goethe era stata tradotta in quel periodo e Turner ne fu irresistibilmente attratto per la sua essenza spiritualistica, in contrasto con le idee di Newton, In particolare, come dimostrano i suoi appunti, rifletté a lungo sul capitolo intitolato “Effetto fisico-psichico del colore”. Goethe costruisce la sua teoria dei colori sul cerchio cromatico e li classifica attribuendo a ciascuno di essi un carattere positivo e negativo. I gialli, i gialli-rossi (gli arancioni) e i rossi-gialli (colori caldi) sono positivi perché esprimono vivacità. I verdi, i blu e i violetti (colori freddi) sono negativi perché evocano malinconia.

Come osserva Goethe: “È stato ampiamente dimostrato che un colore produce un’impressione particolare sull’essere umano, e così facendo rivela la sua essenza contemporaneamente all’occhio e alla sensibilità… se il nostro “trattato dei colori” guadagnerà il favore del lettore, non mancherà di far scaturire applicazioni e interpretazioni allegoriche, simboliche e mistiche, secondo lo spirito dell’epoca”.

In realtà però il pensiero di Goethe, essendone egli venuto a conoscenza alla fine dell’ excursus artistico, non modificò il sistema di Turner. La composizione di una tavolozza per un pittore è una scelta piena di significato. La disposizione dei colori, la loro successione, la loro distanza e anche la quantità di colore usato, rivelano allo stesso tempo la griglia visuale di un artista e il modo in cui agisce la mano, ci svelano le sue abitudini e le sue preferenze. I colori che egli privilegia sono l’espressione della sua sensibilità, della sua immaginazione e della sua sintassi.

Racchiuso in un’ellissi, il chiarore pallido illumina Snow Storm – Steam-Boat off a Harbour’s Mouth, in un magma indefinibile e scuro dai rossi e dai gialli sovrapposti e smorzati. Le pennellate piene, ampie, si agitano, gesticolano, si stendono sulla superficie e la tagliano. Lo sguardo non ha altra possibilità che quella di inabissarsi nella zona illuminata per seguire il movimento vorticoso e focalizzarsi sull’imbarcazione nera al centro di un mare animato da impercettibili spasimi, turbine in cui l’essere, perso e smarrito, desidera essere ritrovato. È un quadro tragico che riporta in superficie gli incubi dell’animo dell’autore.

Egli, per dipingere questo fortunale, si fece legare all’albero della nave come Ulisse di fronte alle sirene: era un tentativo di rapporto diretto con la natura, un tentativo non più protetto dall’azione parallela di una ragione che si riconosceva insufficiente.


[1] W. Guy, Turner, Le forme della luce

[2] Ibidem

[3] Ibidem

5 commenti Aggiungi il tuo

  1. fulvialuna1 ha detto:

    Nelle opere di Turner c’è davvero la luce di Dio. Un aritista che combina la forza della natura all’uomo, che descrive il mare come se lo stesse raccontando con le parole: ci parla della sua quiete ma anche della sua violenza; nelle opere che hai postato la luce è a tratti tenue, sfocata, dilata le immagini, ma a volte è forte,irruente, violenta…Grande artista che ha davvero capito quanto Dio possa manifestare il colore nella natura che ci circonda.

    1. musa inquietante ha detto:

      bellissimo commento, grazie delle tue preziose considerazioni!! E’ molto sentita la tua lettura di Turner, penso piacerebbe anche a lui 😉 …

      1. fulvialuna1 ha detto:

        Sei troppo buona. Grazie.

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